Natale del Signore

d. Bernardo Artusi csl – Certosa di Firenze

In questa notte di Natale la liturgia ci parla di un’illuminazione: Dio ha illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo. In effetti, le grandi opere di Dio nel mondo avvengono di notte, fronteggiando le tenebre che minacciano di ingoiare tutto. In questa notte santissima noi offriamo a Dio Padre la nostra Eucarestia, il pane e il vino che contengono tutta la nostra attesa, l’attesa dell’umanità che si è prolungata nel tempo di Avvento, dalla notte dei tempi, fino a questa notte. I testi che ci vengono offerti e tutta la liturgia che ci è dato di celebrare e di vivere ci dicono che la nostra offerta viene accolta dalle mani del Padre: il Padre accoglie i nostri doni, il nostro desiderio sospeso alla nascita di una vita nuova che mancava al cuore della terra e nella sua accoglienza il Padre non si fa vincere in generosità donandoci il suo stesso Figlio, carne della nostra carne umana. Nel bambino che ci è donato questa notte diventa una Notte di Luce e ciò che la Chiesa offre, la preghiera e il segreto desiderio che ciascuno porta oggi nel cuore e sull’altare è accolto dal Padre per essere trasformato nel Cristo suo Figlio, per partecipare della sua stessa gloria, la gloria di essere figli.

Nel bambino che nasce dunque è apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini per formare un popolo nuovo, secondo il cuore di Dio. La grazia è apparsa e il popolo che camminava nelle tenebre, nel buio del nonsenso e perduto nella sua orfananza, ha visto una grande luce. Per noi è nato un bambino, ci è stato dato un figlio, un bambino è generato oggi poiché proprio oggi Dio visita il nostro mondo tenebroso, la nostra storia ferita.
Nel bambino che ci è dato di contemplare e di adorare nella grotta di Betlemme si compiono le antiche profezie. Eppure la profezia di Isaia non è completamente realizzata. La nascita del Messia è ancora solo una tappa del cammino della storia verso il suo compimento. Ma se il Messia è nato, esiste una speranza per tutti, questo divino bambino è il segno che il piano di Dio va avanti, che nei travagli della storia il Regno viene. Contemplando il Messia bambino siamo invitati a non rassegnarci alle tenebre e a ridestarci, a indossare le armi della luce per vivere e lottare contro tutto ciò che opprime l’uomo. Nel bambino di Betlemme la potenza, bellissima, di Dio si manifesta nel potere di diventare un bambino per noi. Anche noi siamo partecipi di questa potenza ogni volta che ci facciamo piccoli, ci mettiamo al servizio di Dio e dei fratelli.
Oggi la Vergine partorisce l’Eterno, oggi un bambino è Dio e Dio è un bambino. Nel mistero del Natale si nasconde un annuncio anche per quel bambino che continua segretamente a vivere in noi, in ciascun adulto. Quel bambino che continua a udire ciò che l’adulto ormai non sente più. Sì, il Natale è la festa dell’infanzia nel senso più profondo: che solo i bambini sono in grado di non stupirsi che Dio scenda sulla terra assumendo l’aspetto di un bambino. Innumerevoli immagini e icone, una infinita teoria di presepi annuncia questo stupore, questa eterna infanzia di Dio. Da adulti vogliamo spiegazioni e analisi, chiediamo serietà e non esiste espressione più spregiativa delle parole “è una cosa da bambini”. E i bambini crescono presto diventando seri e noiosi, come gli adulti. Ma Cristo ha detto “diventate come bambini”. Che cosa manca di solito agli adulti, che cosa è stato seppellito in loro se non la capacità propria dei bambini di stupirsi, di rallegrarsi e, soprattutto di essere interi, integri, nella gioia come nel dolore? La capacità di fidarsi, donarsi, amare e credere con tutto il proprio essere. E infine la capacità, che gli adulti perdono, di prendere sul serio il sogno, di squarciare la routine quotidiana, la cinica diffidenza, di prendere sul serio la profondità del mistero del mondo che si rivela al santo al poeta al bambino.

Il bambino non ha né potere né forza, ma proprio nella sua impotenza si mostra sovrano, proprio nel suo essere debole e indifeso sta la sua forza unica. Il bambino della lontana grotta di Betlemme non vuole che noi lo temiamo, entra nei nostri cuori senza incuterci paura, ma solo con l’amore. Come bambino si affida a noi, e come bambino, noi possiamo solo amarlo e affidarci a nostra volta a lui. In un mondo in cui dominano potere e forza, paura e schiavitù, il Dio fatto bambino vuole da noi solo un amore libero e lieto, vuole che gli doniamo il nostro cuore, e noi lo doniamo a questo bambino indifeso che si fida di noi fino in fondo. Nel Natale del Signore la Chiesa ci svela il gioioso mistero di un amore libero, senza alcuna imposizione, di un amore capace di vedere, riconoscere, amare nel Divino bambino Dio stesso e di accogliere il dono di una nuova vita.

Quarta Domenica di Avvento (Anno A)

d. Bernardo Artusi csl – Certosa di Firenze

 Mentre il cammino dell’Avvento ci ha portati ormai vicini al Mistero del Natale, siamo invitati a fare un nuovo passo verso la profondità, ad aderire in modo più pieno al disegno di Dio. Il testo di Isaia ci pone l’esempo del re di Giuda, Acaz, che nel 739 a.C. decide di allearsi con gli Assiri, piuttosto che con il regno di Siria e di Israele. Nonostante il richiamo del profeta a fidarsi di Dio, che non farà mancare a tempo opportuno il suo soccorso, Acaz si ostina a non chiedere un segno da parte di Dio. Nel profondo ha già scelto di seguire la sua visione delle cose, e decide di allearsi con la potenza nemica piuttosto che seguire le parole del profeta Isaia. Un atteggiamento assai rivelatore: finché non abbimo un reale rapporto con Dio, tendiamo a fidarci di noi stessi, e Dio ci piace seguirlo e servirlo finché fa quello che vogliamo noi. Vengono in mente tanti casi: come quelle famiglie, apparentemente tanto religiose, che diventano le più strenue avversarie della vocazioni dei loro figli, quando si profilano diversamente da quanto da loro immaginato. Così, una persona che manifesta una chiara vocazione alla vita claustrale, non di rado trova i suoi più forti oppositori proprio nei genitori, che fino ad allora avevano manifestato di essere tanto devoti. Insomma, quando Dio prende una iniziativa straordinaria e mette a soqquadro i nostri progetti, intervenendo nella storia – come è proprio di un Dio che ci previene e ci ama per primo –, è allora che emerge la nostra verità: la consistenza della nostra fede, oppure le illusioni religiose che crollano rovinosamente quando il nostro dio immaginato ci delude.

    Nella pienezza del tempo, al momento in cui Dio prende l’iniziativa di colmare ogni distanza nell’incarnazione del Verbo, emerge tutta la grandezza della fede di san Giuseppe. Giuseppe vive un dramma interiore, all’annuncio della gravidanza della sua promessa sposa, ed è orientato a licenziarla in segreto, cercando di proteggere Maria, di esporla il meno possibile alla pubblica riprovazione. Giuseppe sa che il bambino non è suo, e si trova in una situazione analoga a quella di Abramo: rinunciare al suo bene più caro. Ma Dio prepara per lui una via nuova di unione, di amore pieno. Ed ecco che si manifesta la giustizia, la rettitudine del cuore e la grandezza della fede di Giuseppe: egli adegua la sua vita al disegno divino, accetta di entrare interamente nei tempi e nei modi di agire di Dio, pur senza capire granché. Giuseppe dà la precedenza a Dio, al suo modo di agire sconcertante, e si fida. Così anche lui, insieme alla sua sposa, accoglie e genera nello spirito, con la sua docilità alla Parola ascoltata in sogno e nell’obbedienza della sua fede che mette Dio al primo posto.

    Anche a noi è chiesto di lasciare Dio libero di prendere iniziative nella nostra vita, e di lasciarlo agire liberamente nel suo modo paradossale, umanamente sconcertante. Il Bambino atteso, nasce “secondo la carne” e secondo lo Spirito, è Figlio della Vergine e dello Spirito Santo, e mantiene nel suo modo di essere e di agire questa sua duplice origine, divino-umana. In Cristo si manifesta una storia e una generazione divina e umana: l’Eterno si incontra con il tempo, il Creatore con la creatura, il Salvatore salva questa nostra “carne” mortale. Il suo duplice nome – di Emanuele, “Dio con noi” e di Gesù, “Dio salva” – rivela il suo segreto: non viene a mani vuote, questo Dio che si fa povero per noi. Divenendo uomo, il divino Bambino dilata con la sua ricchezza la piccolezza e la debolezza dell’essere umano a misura della vastità degli orizzonti di Dio. Ci rende partecipi della sua duplice origine: “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quanti credono nel suo nome” (Gv 1,12), canteremo nel giorno di Natale. Dio salva la nostra autentica vocazione, la vocazione dell’uomo a vivere secondo la grandezza e il respiro del cuore di Dio.

    Chiediamo la grazia di accogliere la Parola e l’agire di Dio, anche se non capiamo sempre dove ci vuole portare. Chiediamo occhi per vedere come opera nella nostra povertà la ricchezza del suo amore, nella nostra piccolezza la grandezza della sua misericordia, nei nostri ristretti orizzonti, la bellezza e la creatività dello Spirito Santo.

Terza Domenica di Avvento (Anno A)

d. Bernardo Artusi csl – Certosa di Firenze

Giunti a metà del cammino di preparazione al Natale, siamo invitati a gioire. E in questo invito alla gioia la liturgia esprime certamente il cuore di Dio, il suo più profondo desiderio per l’umanità: Dio ci vuole felici, ricolmi del suo Spirito, della sua Vita, più forte della morte. Eppure non ci sorprende la domanda che Giovanni Battista affida ai suoi discepoli dal carcere: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?”. Una domanda che lascia trasparire un’esitazione, riguardo a “colui che deve venire”, il Messia atteso e annunciato da tanti profeti lungo i secoli. Cristo, nel suo comportamento, non doveva coincidere pienamente alle aspettative di Giovanni Battista. Più che un Messia potente e severo, egli appare mite e umile. Non certo un vincente, ma uno che si rivolge ai piccoli e ai poveri. Moralmente, sembra piuttosto discutibile, frequenta abitualmente pubblicani e peccatori. Non tiene le distanze, ma si coinvolge con i pagani: parla liberamente con una donna samaritana, perdona pubblicamente un’adultera, guarisce il servo di un centurione romano, si invita a casa di un collaborazionista dei romani. 

Giovanni Battista esita e il Cristo gli risponde, facendo sue le parole del profeta Isaia e con i segni concreti della sua azione, che si sta inaugurando un mondo nuovo. Non risponde direttamente, ma chiede a Giovanni di aprire gli occhi del cuore, gli occhi che sanno leggere con fede la storia e si lasciano sorprendere dal modo paradossale di agire di Dio. Il Dio del nostro immaginario, compie esattamente ciò che desideriamo e aspettiamo. Il Dio vivo e vero lo si conosce invece per rivelazione, ed è sempre oltre, oltre quanto ci siamo rappresentati, oltre quanto abbiamo capito di lui, oltre i nostri bisogni e le nostre aspettative. Beati quanti non si scandalizzano di lui, quanti non si scandalizzano del divario tra il Gesù reale e il Gesù sognato. Gesù lo si conosce da peccatori perdonati quale nostro Salvatore, che si manifesta nella sua misericordia. Non un concetto. Un incontro, un tocco del tutto unico e personale, che guarisce le nostre ferite, anch’esse così personali, da tracciare delle cicatrici riconoscibili, memoria indelebile sulla nostra pelle di quanto ci ha ferito, come anche del passaggio risanante di Dio.

Gesù delude le nostre aspettative umane di grandezza nel suo essere il più piccolo, infinitamente più piccolo delle nostre proiezioni. E nel farsi il più piccolo, diventa così grande al punto da incontrarci tutti.

Accogliere un tale Messia richiede una conversione. E Gesù indica anche nella persona di Giovanni Battista un segno che ci costringe a cambiare mente: non un profeta in morbide vesti, accattivante, ma un uomo del deserto, totalmente consacrato alla sua missione di annunciare, di preparare la via a colui che deve venire. La via la traccerà poi il Signore stesso, con la sua vita, e aprendo ai discepoli la strada e il modo stesso di seguirlo. Giovanni è il più grande dei profeti nel suo ruolo unico, e tuttavia il minimo nel regno dei cieli è più grande di lui. Giovanni rimane sulla soglia, sospeso nel suo vibrante desiderio, nella sua attesa, che il mite Agnello da lui annunciato colmerà. Davanti all’agire paradossale del Messia, Giovanni si pone in ascolto interrogando, rimane un cercatore della verità. 

L’invito alla gioia della liturgia di oggi risuona per tutti noi e può diventare un’esperienza personale se accettiamo che Dio ci inserisca nel suo disegno di amore, nel suo modo di amare, e lasciamo fare a lui. Allora anche per noi potranno aprirsi i nostri occhi e le nostre orecchie e saremo capaci di riconoscere il passaggio di Dio nei nostri deserti, nelle nostre pianure inaridite. Dio prende l’iniziativa, prepara il suo sentiero, fedele alle sue promesse. E continua a operare il miracolo di sfiorare il cuore dell’uomo e di risvegliarlo alla vera vita. Se rimaniamo aperti alle sorprese dello Spirito, Dio non mancherà di manifestarsi nella sua bellezza che fiorisce anche per ciascuno di noi.

Seconda Domenica di Avvento (Anno A)

d. Bernardo Artusi csl – Certosa di Firenze

La liturgia di questa seconda Domenica di Avvento ci porta a contemplare la radice, il motivo della nostra più profonda speranza. Al tempo stesso, rinnova l’invito a stare svegli, a vigilare.

Possiamo sperare in pienezza perché Dio ci viene incontro, ci cerca da lontano e ha promesso che un germoglio spunterà. Esile come ogni germoglio al suo nascere, eppure forte della Vita di Dio, capace di farsi strada oltre ogni notte, ogni ostacolo, perché su questo germoglio, che ha salde radici ed è teso verso il cielo, si è posato “lo spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2), come canta Isaia lasciando intravedere un fedele ritratto del Cristo. Lui è il germoglio atteso, che si fa strada attraverso la crosta dura della nostra terra, della nostra umanità ottusa, per renderci partecipi dei suoi stessi sentimenti, per farci parte della sua Vita che può capirsi chiaramente, senza ombre, con il Padre, sorgente di ogni bontà e con il suo Spirito, che si può posare finalmente su un figlio dell’uomo, viva immagine del cuore del Padre. Questo germoglio, crescendo, “farà sentire la sua voce potente per la gioia del nostro cuore”, canta l’antifona d’ingresso. In Lui ci è promesso un battesimo, un’immersione piena in “Spirito e fuoco”, mandato per compiere la sua azione purificatrice raccogliendo i figli di Dio dispersi e bruciando la paglia (cf Mt 3,12) inutile delle nostre illusioni. 

Sì, le nostre illusioni sono meno che paglia esposta al fuoco, eppure facilmente fanno breccia nel cuore, fanno breccia nel nostro immaginario, soprattutto nella nostra mentalità religiosa. Incontriamo qui l’altro richiamo della liturgia odierna, quello alla vigilanza e alla conversione. Un richiamo che questa volta suona con la voce austera e quasi violenta del Battista: “Razza di vipere”, afferma rivolgendosi ai farisei e sadducei presenti. In realtà si rivolge a tutte le persone, di ogni epoca e religione, che si sentono perbene, a posto con Dio. Coloro che sono vittime delle loro illusioni religiose, assai pericolose, perché confondono la docilità a Dio con la soddisfazione personale e il perseguimento dei propri progetti personali. Questo atteggiamento porta a non incontrare il Dio vivente, a non lasciarsi incontrare da Lui, creando come uno schermo illusorio che impedisce la vera visione. Se non si arriva a rinunciare al nostro amor proprio e alle nostre pretese, non possiamo fare un passo per corrispondere ai progetti d’amore che Dio ha per noi. Corrispondere alla voce, autorevole e mite, che ci chiama da dentro, che ci sorride, dentro, avrebbe detto un mio amico. Allora Dio finisce per essere a servizio dei miei progetti: finisce per diventare il mio assistente universitario, direbbe qulcuno, la mia badante, o se si preferisce, il notaio che si limita a certificare le mie aspettative e la mia giustizia. A un tale Dio, si voltano presto le spalle, con delusione, perché Dio ci vuol bene e non può che deludere le nostre illusioni cieche. Anche la Chiesa deve sentirsi richiamata: non diventare pula destinata al fuoco a causa della sua rassegnazione alla mediocrità, che è l’altra faccia del perfezionismo supponente che fa a meno di Dio. Scivola presto nella mediocrità. 

Al grande pericolo dell’illusione religiosa fa da controcanto l’umile accostarsi di tante persone al Battista, semplicemente “confessando i propri peccati”. Sono stati attratti da quell’annuncio: “Il regno dei cieli è vicino”, e desiderano esserne sfiorati, non restarne fuori. E davvero nessuno è escluso, perché nessuno è pronto a priori, nessuno è a posto. Non servono sforzi di buona volontà, accenni di buoni condotta, propositi o decisioni, tutte cose inutili. Conta ammettere la propria debolezza, constatare un fallimento. Umanamente, ci sono tanti motivi per non confessare i propri peccati: perché li ignoriamo, perché ci autogiustifichiamo, perché prevale la vergogna, spia del fatto che non si è ancora conosciuto un amore così grande da neutralizzare ogni confusione e guarire il nostro senso di colpa. Non si è ancora conosciuto il vero Volto di Dio. Ogni confessore sa, invece, che il peccato nascosto, rimosso, avvelena e uccide. Esposto alla luce dello sguardo di Cristo, il peccato è invece confessione e certezza della Misericordia che copre il peccato e ci abbraccia, come solo l’Amore, divinamente, sa fare.

Prima Domenica di Avvento (Anno A)

d. Bernardo Artusi csl – Certosa di Firenze

La liturgia di questa Domenica inaugura un nuovo anno liturgico, che sarà accompagnato particolarmente dalla lettura del Vangelo di Matteo. La liturgia coincide anche con l’inizio dell’Avvento e i testi tratteggiano le condizioni di un cammino battesimale. La nostra vita è un cammino di conoscenza, di approfondimento, di progressiva adesione a Cristo. Ci vengono incontro l’immagine del cammino, dell’incontro, del risveglio, della vigilanza attenta, dell’illuminazione, dell’essere rivestiti di luce. Quasi a condensare, con forza, il senso della nostra vita di fede e della nostra sequela.
“È ormai tempo di svegliarvi dal sonno” (Rm 13,11), ci esorta Paolo con urgenza. Se la nostra vita di battezzati è paragonabile a un risveglio, tanto che possiamo definirci come dei “vivi tornati dai morti” (Rm 6,13), perché siamo rinati in Cristo a una vita nuova, a una vita redenta, facciamo tutti continuamente esperienza del rischio di ricadere nel sonno della morte, dell’apatia, della disillusione. L’uomo “vecchio” può sempre riemergere per tentare di affermarsi e così renderci insensibili alla Vita dello Spirito in noi. Ecco che la liturgia, mentre le giornate si accorciano di giorno in giorno, ci invita a vegliare, a non cedere al sonno. A chiedere la grazia di avere un cuore ben sveglio, recettivo, desideroso di incontrare, di lasciarsi incontrare.
Si veglia nel desiderio, facendo spazio, tendendo l’orecchio, scrutando nel buio. Non si veglia solo in momenti privilegiati della nostra vita o della nostra giornata, ma sul filo del quotidiano, fra mille difficoltà, imprevisti, prove che si possono profilare per noi, attorno a noi, per i nostri contemporanei. Come ci insegna la tradizione monastica, si veglia a nome della Chiesa, a nome di tutti. Semplicemente, stando in attesa, e chiedendo il dono di avere il cuore ben orientato verso Cristo.
Così ci è dato di camminare, nella luce del Signore che ci illumina da dentro: luce che ci è data dalla Parola, dalla Chiesa, non ci trasmette qualche nozione astratta su Dio o sulla morale: no, è una luce che illumina salvando, perché ci mette in cammino verso la vera Luce, che promette di colmare le attese del nostro cuore, anche se è notte. Senza tale luce che risplende dentro, rimaniamo nel sonno dell’incoscienza e nel buio delle nostre supposizioni, delle nostre illusioni, delle nostre aspettative deluse. Una luce che ci invita a discernere, a scegliere verso dove muovere il prossimo passo, anche quando il cammino avanti si snoda tra molte incognite e non ci è dato vedere lontano.
Il salmo responsoriale ci invita: “Andiamo con gioia incontro al Signore”. Andiamo incontro al Signore risorto, Lui ci attende alla meta e tante volte lungo il percorso si lascia riconoscere. E ogni riconoscimento dà gioia, dà forza ai nostri passi. La nostra forza, la gioia, la luce vengono da Cristo, che ci chiama a camminare verso il Mistero del suo rinnovato incontro.
Un nuovo cammino, senza sapere come si snoderà il cammino. L’attesa può essere estenuante, per questo conta la qualità della nostra vigilanza: se attendiamo nell’angoscia della paura o piuttosto nella certezza del cuore che ricorda e ama. La paura blocca, paralizza, esaurisce le nostre energie, ed è sempre cattiva consigliera, finendo per renderci prigionieri del nostro io.
L’attesa nell’amore guarda a Dio, che sa. E la Chiesa ci raduna amorosamente in ascolto della Parola perché cresca con i suoi lettori; la Chiesa ci riunisce attorno al banchetto della Vita, perché, nutriti interiormente ricordiamo che l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, anche se il nostro cuore spesso dimentica o tradisce. L’amore di Dio ci abita, anche se in modo oscuro, così da farci pellegrini, liberi cercatori, in attesa dell’incontro che salva. Ringraziamo per questo tempo che ci è donato per deciderci a vivere per Cristo, in Cristo, quali figli della luce.